“All the Way to the Top” e il potere del dissenso. Il 26 luglio 1990, l’allora Presidente degli Stati Uniti D’America George H. W. Bush convertiva in legge l’Americans with Disabilities Act, o ADA, una legge a favore dei Diritti Civili delle persone con disabilità. Una protezione per persone con ogni tipo di disabilità.
Vitale per l’approvazione della Legge fu la manifestazione che si svolse il 12 marzo dello stesso anno, nota come “Capitol Crawl”, letteralmente “la strisciata del Campidoglio”, durante la quale persone con disabilità abbandonarono i propri ausili per trascinarsi sulle scale del Campidoglio, a Washington (Stati Uniti D’America), dimostrando con i fatti il reale ostacolo alla libera espressione di sé stessi rappresentato dalle barriere architettoniche.
La manifestante più giovane, Jennifer Keelan Chaffins, ha raccontato la sua storia in un libro illustrato per bambini, intitolato “All the Way to the Top”.
Al tempo del Capitol Crawl Jennifer era una bambina di otto anni. Aveva già partecipato a diverse proteste per il “disability rights Movements”, la prima era stata in Arizona, Phoenix, nel 1987, quando aveva appena sei anni, proseguendo con altre manifestazioni a San Farcisco e Montreal. Sono emblematiche le parole da lei scritte nella prefazione del libro, che da sole bastano a dar senso alla sua protesta:
“From a young age, i learned that buses, museums, libraries, and even schools that were accessible to my able-bodied peers were not accessible to me because there were no wheelchair ramp”
La consapevolezza di non poter unirsi agli amici per l’impossibilità di accedere all’edificio dove si stanno incontrando ha chiarito a Jennifer e alla sua famiglia che le persone con disabilità non erano trattate allo stesso modo delle “able body people”.
Unendosi ai gruppi di attivisti con disabilità, Jennifer si sente meno sola e decide di essere parte attiva di un cambiamento. A spronarla ancora di più è la proposta degli attivisti di una legge per dei luoghi accessibili a tutti. Una legge che rischiava di non passare, perché giudicata troppo complicata e costosa dai Membri del Congresso.
Ciò la porta a Washington DC, davanti al Campidoglio, a protestare per l’approvazione dell’ADA.
Ironia della sorte, il luogo dove il Congresso approva le leggi è preceduto da una montagna di scalini. E mentre le persone con disabilità abbandonano i propri ausili e si avventurano per le scale, Jennifer viene fermata perché considerata troppo piccola. Ma Jennifer quelle scale vuole salirle, per lei e per tutti i bambini con disabilità esclusi dai luoghi d’aggregazione per via delle barriere architettoniche. E così fa, scende dalla sedia e, con il corpo a contatto con le scale, sotto gli occhi della folla e dei giornalisti che riprendono con telecamere e microfoni, compie comunque la sua scalata: “All the Way to the Top”.
“I’ll take all night if I have to”
Leggendo “All the Way to the Top”, nonostante siano passati diversi anni e mi trovi non in America ma in Italia, posso dire che, nella maggior parte dei casi, questo non è un mondo per persone con disabilità. La strada da percorrere è ancora lunga. Perché per rendere il mondo più accessibile, bisogna far cadere prima di tutto le barriere nella mente delle persone.
“Laws like the ADA don’t change things overnight. Entrance have to be rebuilt, sidewalks redesigned, buses reengineered. Slowest of all, minds have to change”
Più lentamente di tutto, le menti devono cambiare. E qui sta il cuore del problema, ieri come oggi.
La testa delle persone, la scala più dura da livellare, gradino per gradino, in un tempo indefinito che mal si accorda con la nostra pazienza e con il nostro diritto all’uguaglianza. Una barriera architettonica non è solamente un ostacolo, è il rifiuto da parte della società nei confronti di chi quell’ostacolo non può o ha difficoltà a superarlo.
Ed è questo che ci rende diversi dagli altri. Non la nostra disabilità, ma la società che continua a considerarci qualcosa che la riguarda solo in apparenza.
Mi è capitato spesso di recarmi ad eventi dichiaratamente accessibili ma che avrebbero potuto esserlo di più, molto di più. Servizi navetta per raggiungere posti con pause orario non comunicate o con gradini troppo alti per poter accedere al mezzo.
Concerti in cui avrei dovuto separarmi dalle persone con cui ero andata ad assistere perché gli spazi pensati per le persone con disabilità erano ristrettissimi. Quando ho reclamato, mi è stato risposto di pretendere troppo, di non apprezzare un servizio stimato da molti. Ci dobbiamo accontentare, dicono, invece di ascoltare i nostri consigli su come migliorarsi.
Questo perché si continua a pensare che la disabilità sia un affare di chi la vive e non della Società. Eppure nel 2006 la convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità ha stabilito che sono persone con disabilità coloro che “presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri”. E direi che da aggiungere c’è poco altro, se non ribadire che qualunque svantaggio per chi ha una disabilità non deriva da se stesso ma dal suo essere in un mondo che pone continui ostacoli. E “All the Way to the Top” è lì a ricordarcelo: Slowest of all, minds have to change.
“If you believe in something, say it loud for everyone to hear”
Titolo: “All the Way to the Top: How One Girl’s Fight for Americans with Disabilities Changed Everything”
Testo: Jennifer Keelan-Chaffins e Annette Bay Pimentel
Illustrazioni: Nabi H. Ali
Edito da: Sourcebooks Explore
Anno di pubblicazione: 2020
Pagine: 32