Una goccia di splendore

Un racconto ispirato dalla Foto in copertina, di Giancarlo Biondi
Una goccia di splendore

Si svegliò che era ancora notte fonda. Girandosi a pancia in giù il materasso compresse la sua pancia abbondante, facendo tornare su la cena non digerita. Si alzò maledicendo la sua ingordigia, che ancora una volta l’aveva indotto a un pasto eccessivamente pesante per il suo stomaco. Si mise a camminare per la casa, nella speranza di digerire almeno una minima parte di quel che aveva mangiato e poter tornare a dormire un po’ più leggero. Aveva bisogno di riposo, doveva essere lucido per il giorno che s’apprestava a vivere: il giorno del funerale di sua moglie. Ma non successe, anzi, più passeggiava, più il peso sullo stomaco aumentava, quasi a formare qualcosa d’altro rispetto a lui. Guardò il suo viso nella finestra della sua camera da letto: il suo riflesso aveva gli occhi chiusi, come se stesse dormendo. La ritenne un’allucinazione di cattivo gusto dettata dalla stanchezza. Portò una sedia davanti alla finestra, vi si sedette di lato e vi poggiò un orecchio, chiudendo gli occhi. A quel punto avvertì un dolore così forte che dentro di sé sentì un rumore, una sorta di crack, dopodiché gli sembrò di aver perso un pezzo del proprio corpo. Si guardò allo specchio per vedere se fosse ancora intero e in effetti c’era tutto, solo che ora il riflesso gli rimandava movimenti differenti dai suoi. Alzò la mano destra e il sé dall’altra parte sollevò la gamba destra, girò su sé stesso e invece l’altro si cimentò in un saltello; emise un gemito di paura e quello gli fece la linguaccia.

Fuori era ancora notte fonda, ma pensò di prepararsi per il funerale, in modo tale da tenere la mente occupata e scacciare così quello che credeva essere solamente un abbaglio; si fece una bella doccia calda, s’insaponò con foga e dettagliatamente, per cercare di lavarsi di dosso un po’della pesantezza e del senso di smarrimento che provava. Il profumo del bagnoschiuma utilizzato e il tepore dell’acqua calda gli diedero l’illusione di ritrovata leggerezza. Indossò il completo nero, ritirato pulito e stirato dalla tintoria il giorno prima, e si specchiò di nuovo, accorgendosi che il sé dall’altra parte indossava una sua vecchia t-shirt nera e dei jeans dello stesso colore, che ricordava di aver buttato da molto tempo. Credendo a quel punto di essere realmente impazzito, preso dallo sconforto si gettò sul letto e pianse come un bambino. Sollevò la testa dopo qualche minuto, era in preda a un’emicrania e con la vista offuscata per via della fatica e delle lacrime, perciò non capì con prontezza ciò che accadde; sentì un rumore di vetri rotti e subito dopo vide un’ombra aprire la porta di casa e uscire. Si asciugò con le maniche del vestito pulito gli occhi e il moccio che gli colava dal naso e guardò con attenzione la stanza. Lo specchio era completamente in frantumi. Pensò si trattasse di un ladro che nei pochi secondi in cui lui piangeva come uno scemo era entrato in casa, mettendosi in saccoccia quanto più potesse e fosse fuggito via buttando giù lo specchio. Si alzò dal suo letto di lacrime e si precipitò alla finestra, per vedere di riuscire a identificare il ladro. I colori della notte iniziavano a schiarire in preparazione dell’alba; distinguere i dettagli risultava ancora difficile ma ce la fece, lo vide. Il ladro altri non era che il sé stesso vestito con t-shirt e jeans.

Stava fuggendo con il suo ombrello nero, che aveva smesso di utilizzare perché rovinato dal tempo, ma che aveva conservato perché gli ricordava una giornata estiva di pioggia, in cui lui e la moglie, nonostante le condizioni climatiche non proprio consone, avevano deciso di avventurarsi in bicicletta verso la campagna. Al pensiero di aver perduto quell’oggetto di enorme valore affettivo la tentazione di buttarsi nuovamente sul letto a piangere disperatamente fu forte. Riuscì a trattenersi però e si fece coraggio. Dimenticò di avere addosso il completo lavato e stirato per il funerale e si precipitò all’inseguimento dell’altro sé utilizzando la sua vecchia bicicletta arrugginita, che stanziava in corridoio inutilizzata da tempo vicino a quella, identica, della moglie.

Le ruote erano leggermente sgonfie e per tenere stabile il manubrio dovette fare attenzione; il fatto che non pedalasse da anni non gli assicurò massima velocità, ma sicuramente fu meglio che avventurarsi nell’inseguimento a piedi. Corse appresso a quel tizio per strade che gli erano familiari, solo che l’altro correva come il vento ed era in netto vantaggio rispetto a lui. Gli gridò ansimando “tanto t’acchiappo” e quello da lontano gli rispose, senza un filo di affanno nella voce, forte e chiaro, “provaci se ci riesci” e gli sembrò che seguisse una pernacchia a quella dichiarazione.

Quando finalmente lo vide fermarsi era allo stremo delle forze. Senza accorgersene l’inseguimento del sé sbucato dallo specchio l’aveva condotto, esausto e senza fiato tanto che quasi quasi quel giorno avrebbero potuto seppellire anche lui, in quel campo appena fuori città, dove tanti anni prima era stato con la moglie. Albeggiava. Guardò il panorama che gli si apriva di fronte: l’altro non era altro che un punto nero in mezzo al prato pieno di fiori colorati, differenziabile solo per via dell’ombrello malridotto, che aveva aperto per ripararsi dalla pioggia che iniziava a scendere. Scese dalla bicicletta, la poggiò con cautela a terra e lentamente, cercando di non fare rumore, si diresse verso l’altro sé pronto a bloccarlo con la forza, se fosse stato necessario. Quando lo raggiunse, però, l’altro non diede il minimo cenno di voler scappare, anzi, ogni traccia dell’aria dispettosa che l’aveva contraddistinto fino a quel momento era sparita. Il sé sbucato dallo specchio, con espressione seria e meditabonda, gli diede con il pugno destro dei leggeri colpetti sulla fronte, che sembravano soffi di vento, gli mise una mano sul petto donandogli la sensazione di aver appena ingerito una bevanda calda e gli restituì di sua spontanea volontà l’ombrello.

Avrebbe voluto sapere dove diamine avesse preso la maglietta e i pantaloni che un tempo aveva indossato ma che era sicuro di non possedere più, ma non fece in tempo a domandarlo perché l’altro svanì, dopo avergli indicato con il braccio il paesaggio circostante, spingendolo a osservare attentamente e a ravvivare la memoria.

Ricordò che l’ultima volta che aveva indossato quella maglietta e quei pantaloni neri era stato tanti anni prima, quando con la moglie erano giunti con la bicicletta proprio in quel campo. Pensò a lei, a com’era allora. Al posto dei pochi capelli bianchi, con cui oramai si era abituato a vederla negli ultimi anni, portava una treccia che gli ricordava una spiga di grano e indossava un vestito bianco, con disegnati qua e là margherite e papaveri. La pelle liscia come quella di una bambola riluceva di luce propria. Montati in sella, lei si era tolta le scarpe e le aveva riposte, assieme all’ombrello nero, nel cestino della bici. Pedalava scalza, senza sentire in apparenza il benché minimo fastidio al contatto con i pedali, lasciando che i piedi venissero accarezzati e pizzicati dal vento.

“Ma non ti da fastidio pedalare a piedi nudi?” gli aveva chiesto lui, che invece portava delle scarpe belle resistenti, impensierito. “Un po’ di solletico appena” aveva risposto lei, sorridendo. La brezza del mattino carezzava la loro pelle e il loro cuore, alimentando la gioia che provavano nello stare assieme. Arrivati fino alla distesa verde avevano lasciato le biciclette, giocato e ballato; i piedi di lei erano divenuti del colore della terra che calpestavano e dopo aver gareggiato a chi rotolasse più veloce anche il resto del corpo aveva subito una sorta di fusione con la natura che li circondava.

Quando la pioggia aveva iniziato a scendere, leggera, le gocce si erano posate sull’erba e sui fiori, facendoli saltellare e prendere vita. A loro era sembrata una magia. Avevano aperto l’’ ombrello nero ed erano rimasti incantati ad osservare la natura accogliere l’acqua come una benedizione. Avevano ripreso la bicicletta che ancora pioviccicava e avevano pedalato fino a casa, dove avevano assaggiato l’uno il corpo dell’altra, constatando che entrambi avevano il sapore di terra e acqua.

Un brivido di piacere e di freddo lo riportò alla realtà. La pioggia lo stava bagnando. Aprì l’ombrello nero malconcio ma ancora funzionante e, come aveva fatto allora con la moglie, rimase a guardare il paesaggio che anni prima aveva stupito i suoi occhi e quelli di lei, come se lo vedesse per la prima volta. La pioggia scendeva e colorava con le sue gocce l’ambiente attorno, ogni goccia era un fiore di diverso colore, ogni goccia era una goccia di splendore. Respirò a pieni polmoni, finalmente il senso di pesantezza era svanito. Guardò l’orologio. Mancava poco al funerale e stava smettendo di piovere. Riprese la bicicletta, si tolse le scarpe e le ripose nel cestino, assieme all’ombrello nero. Pedalò scalzo. Era vero: si provava una sensazione di leggero solletico. Giunto davanti alla chiesa dove si sarebbe tenuto il funerale scese dalla bicicletta e si rimise le scarpe.

Prima di entrare si fermò a specchiarsi in una pozzanghera bella ampia per sistemarsi il completo sgualcito dalla pedalata e inumidito dalla pioggia; quindi sorrise al sé riflesso nella pozzanghera e quello gli rispose con lo stesso identico sorriso.

Total
0
Shares
Comments 2
Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Prev
L’Influenza di Simone Weil su Elsa Morante
influenza Simone Weil in elsa Morante

L’Influenza di Simone Weil su Elsa Morante

Dietro "La Storia" di Elsa Morante

Next
“Un giorno questo dolore ti sarà utile”
Il mio incontro con "Un giorno questo dolore ti sarà utile"

“Un giorno questo dolore ti sarà utile”

Il potere terapeutico delle storie semplici